giovedì 15 giugno 2017

Il gesto universale


Pubblichiamo un articolo tratto da una lezione tenuta da Sensei Paolo Taigō Spongia presso il Tora Kan Dōjō durante la Pratica Zen. In queste righe veniamo richiamati all'attenzione, anche e soprattutto verso i piccoli gesti quotidiani, che mostrano il saper prendersi cura, e svelano il Satori. Le lezioni hanno un carattere colloquiale del quale tener conto nella lettura.
L'articolo è a cura della sezione di Studio e Pratica Zen del 
Tora Kan Dōjō.

In Zazen è buona cosa stare vicini, quasi col rischio di toccarsi. Non bisogna aver paura di contaminarsi con gli altri. Bisogna stare vicini gomito a gomito, è molto importante.

Allora si impara a muoversi con discrezione, a rispettare lo spazio dell'altro e rispettare la sua concentrazione, inoltre permette di ricordare costantemente che lo Zazen non può essere una pratica individualistica.
Non possiamo adattare le regole del Dōjō alla nostra convenienza, anche se si trattasse di una regola dettata ieri andrebbe rispettata come se fosse una regola tramandata da secoli. E’ un modo per uscire da sé stessi, per capire che non possiamo essere noi con il nostro piccolo cervello, che si muove sempre sugli stessi percorsi dettati da abitudini e condizionamenti, a decidere sulla base di cosa ci aggrada o non ci aggrada.
La regola serve anche ad orientare altri in futuro e non solo noi stessi.
Il suono del Moppan (asse di legno che viene colpita con un mazzuolo per segnalare momenti della pratica nel Dōjō e nel Monastero Zen n.d.r.) non è indirizzato solo a voi che praticate Zazen. Pensate per esempio a chi involontariamente lo ascolta mentre sta praticando il Karate nell’altro Dōjō (il Tora Kan Dōjō ha due sale di Pratica, lo Zendō dedicato allo Zazen ed una sala grande dedicata alla Pratica del Karate-Dō n.d.r.), può evocare in lui qualcosa, può comprendere che sta accadendo qualcosa e questo può influenzare il suo spirito mentre ad esempio sta praticando un kata, quindi non pensate che state suonando il Moppan solo per voi. Questa è una cosa importante che spesso ci sfugge: quel suono riverbera molto più lontano di quello che noi possiamo immaginare, nel cuore e nella mente di molte esistenze.
Il fatto di sedere in questo luogo in silenzio, raccolti, in maniera quasi segreta, non deve portare a pensare che sia un’azione che finisce qui e che rimane chiusa tra queste quattro mura. Quest’azione ha un riflesso, un riverbero potente nelle nostre vite e in quelle di chi ci circonda, anche nelle vite di chi non conosciamo ed è ignaro della nostra Pratica.
Quindi non trascurate quel suono, non è solo finalizzato a ricordare qualcosa a noi nel Dōjō, è un suono universale, un richiamo a raccolta rivolto a tutte le Esistenze. Non trascurate nessun gesto perchè ogni gesto ha un riverbero universale.
Dōgen Zenji nel 1200 raccontava queste cose alle persone che praticavano con lui e gli dava le stesse indicazioni, magari in un frangente diverso, ma diceva le stesse cose.
Non serve a nulla leggere Dōgen Zenji se non sentiamo che le sue parole toccano profondamente i nostri cuori e ‘contaminano’ le nostre vite.
Leggere il testo di un Maestro che è vissuto nel Giappone del 1200 non dev’essere come fare dell'archeologia o della filosofia, deve orientare le nostre vite, deve darci le indicazioni vive che dobbiamo mettere in pratica in maniera concreta, offrendogli un nuovo respiro. Dobbiamo ridire quelle parole attraverso la nostra azione.
A prescindere che si sia dei monaci o meno, quando ci accingiamo a qualsiasi gesto in un Monastero Zen o in un Dōjō, anche nel lavarci i denti, recitiamo delle strofe (Gatha) con la convinzione che quel gesto non sia solo messo in atto per sbiancarci i denti ma divenga un gesto universale; per cui quando impugno lo spazzolino recito: 'impugno questo spazzolino perché possa rimuovere la menzogna dalla mia parola e purificarla e perché quest’azione offra beneficio ad ogni esistenza'.
L'azione del lavarsi i denti allora non è più qualcosa legato solo alla nostra igiene personale e ci richiede una maggiore cura ed attenzione perché è a beneficio di tutte le esistenze.
E questo vale per ogni azione quotidiana che così viene in qualche modo ‘santificata’ e 'purificata' dal nostro egoismo, avidità, ignoranza.
Non c'è bisogno di pensare che agiamo a beneficio dell'umanità solo quando ci accingiamo ad azioni umanitarie eclatanti. Certo è importantissimo tirar fuori la gente dalla neve dopo una valanga e ci mancherebbe altro che non lo si facesse (Taigō Sensei fa riferimento ad un episodio di cronaca di quei giorni nd.r.), ma forse se ci laviamo i denti o se facciamo qualsiasi altra cosa con la giusta concentrazione e con spirito ‘religioso’ arriveremo al punto di non dover più scavare la gente fuori dalla neve perché avremo costruito le case senza distrazione o avido spirito di profitto. Molte disgrazie che accadono sono dovute proprio alla distrazione o ad azioni messe in atto senza la dovuta cura o mosse da avidità ed egoismo. Allora arriva la valanga a richiamarci alla nostra responsabilità e la montagna non è assassina, la montagna è benedetta, è santa, anche quando travolge le persone. La montagna fa la montagna, siamo noi che non siamo capaci di fare gli uomini e siamo diventati incapaci di comunicare con la montagna. Il Vajont è stato distrutto perché hanno costruito una diga malamente, con avido spirito di profitto. Un vero montanaro non avrebbe mai costruito una diga in quel posto, ci sono andati gli ingegneri dalle città a farlo, mossi da ben altri interessi.
La vita secondo lo stile e i modi Zen è vera ecologia, innanzitutto ecologia della mente, l’unica da cui può derivare un concreto stile di vita ecologico, non chiacchiere da campagna politica ma semplici e concreti gesti quotidiani.
Allora quando noi suoniamo il legno dobbiamo esprimere questo Pensiero Universale nel suono che riverbera chiamando a raccolta ogni esistenza.
Quando mangiamo, recitando il Gyōhatsu no ge, invitiamo alla nostra mensa il Buddha, i Patriarchi e tutte le esistenze. Tutte le esistenze sono presenti alla nostra mensa, anche se sediamo a tavola in tre. Allora il respiro dei nostri gesti, di tutto quello che facciamo, diventa infinito.
Ma purtroppo siamo stati educati a pensare che il nostro piatto di minestra sia cosa privata riservata solo a noi, alla nostra bocca, al nostro stomaco, e se va bene a quelli che ci stanno intorno, perché spesso non è nemmeno così, non si è più in grado di condividere un pasto, si mangia con gli altri immersi nella distrazione, senza la consapevolezza della condivisione, dello ‘spezzare il pane’, e chi si dice cattolico non può trascurare questo, ognuno è solo con sé stesso in compagnia della sua avidità; ma se noi invece dessimo al nostro nutrirci questo Respiro Universale sarebbe un altro cibo a nutrirci, una vera medicina per il corpo e lo spirito.
Quando solleviamo le ciotole e le portiamo di fronte agli occhi, in segno di offerta e benedizione, compiamo un gesto di trasformazione del cibo, è come quando il sacerdote eleva l'ostia, la trasforma diventando il corpo e il sangue di Gesù Cristo perché l’offerta lo ha trasformato.
E allora mangiare in questo modo diventa una medicina a prescindere da quel che si mangia e innesca una sequenza virtuosa di azioni perché chi preparerà quel cibo che sarà servito a chi è capace di offerta e consapevolezza, lo preparerà con tutto il suo cuore, quel gesto dunque avrà un riverbero vastissimo e alla fine coinvolgerà tutti fino ad arrivare a chi produce le materie prime.
Lo Zen è tutto lì. Quindi quando voi siete invitati alla mensa (e non mi riferisco solo ad un invito a cena) e non accettate l’invito perché magari pensate 'vabbè io posso mancare perchè tanto ci sono gli altri che saranno presenti’ state bestemmiando. Se dimenticate di suonare il moppan non c'è niente di male, succede, però se l'avete dimenticato e avete pensato 'va bene uguale', no, non va bene uguale, perché dovete sentire la responsabilità di chiamare a raccolta tutte le esistenze, non si tratta di fare più o meno bene il compitino che ci ha dato il Maestro, capite?
Ci siamo dati delle regole che dobbiamo continuare a perfezionare affinché la nostra Pratica sia efficace. Dobbiamo affinare i gesti, i modi, stiamo affinando e studiando insieme un linguaggio comune che orienti la nostra Pratica che è anche la nostra vita.
A fine Febbraio verrà a trovarci Shinnyo Roshi e ci potrà dare ulteriori indicazioni per approfondire il nostro esercizio.
Ma il Tora Kan Dōjō, anche se è legato profondamente a Shinnyoji, non è comunque un Tempio e noi abbiamo la responsabilità di tradurre quel linguaggio e quelle forme che sono state tramandate per centinaia di anni attraverso un Lignaggio perché possano essere significative in questo contesto, è questa la nostra Pratica. E dobbiamo essere fedeli, non possiamo fare come ci aggrada o essere approssimativi, siamo i depositari di una Preziosa Eredità. Questo è di fondamentale importanza, perché è la base della nostra Pratica.
Affinare la sensibilità e il gesto attraverso l'esercizio, che vuol dire ripetere, ripetere rinnovando, sempre con maggiore attenzione senza l'istupidimento di chi ripete come coazione a ripetere. Ogni volta che offro un bastoncino d’incenso cerco di fare un gesto sempre più accurato, che poi è l’accuratezza legata a quel preciso istante, affatto standardizzata. Con la cura espressa in quel gesto entro in relazione con chi ha preparato l'incensiere prima del rito, con il Jisha che mi accompagna e mi porge l’incenso e il Jisha e chi prepara l'incensiere deve essere consapevole che sta facendo qualcosa che ci mette in relazione profonda. Non si tratta solo di mettere a posto l’incensiere per fare il compito che qualcuno ci ha assegnato, si tratta di offrire la preparazione dell'incensiere perché io possa offrire a mia volta un incenso al Buddha a nome di tutti. Capite quanto preparare l'incensiere sia importante ? Spesso invece questa incombenza la assumiamo un po' come una seccatura, invece prevede l’atteggiamento di chi sta offrendo l’incensiere al Buddha stesso, con la stessa cura e devozione, così come una buona madre prepara la tavola a cui siederà la sua famiglia con cura, non butta lì due piatti perché ‘bisogna mangiare’, magari cerca di farlo anche con una certa bellezza.
Lo Zen non è una filosofia astratta, è la Pratica di una buona madre (Roshin), di un buon padre.
Noi non siamo più capaci di questa attenzione, stiamo perdendo questa capacità di prenderci cura e e allora accade che la valanga ci travolga.
Io vi consiglio, anche nelle vostre vite fuori dal Dōjō di trovare le forme, i linguaggi adeguati ad ogni situazione attingendo a piene mani all'esperienza fatta nel Dōjō. Fate uso di quel che imparate nel Dōjō: i gesti, il ritmo, l’armonia, vedrete che ne avrete un riscontro enorme se non altro per la vostra pace e per la vostra serenità, nel modo in cui godrete nel far le cose stesse. Perché se voi un gesto lo rinnovate ripetendolo, affinandolo, troverete il modo migliore di fare ogni cosa che sarà sempre in via di perfezionamento perché, come abbiamo detto tante volte, il nostro corpo cambia, la mente, il nostro atteggiamento cambiano, cambia la situazione, cambiano tanti fattori che entrano in gioco per cui ogni giorno quel gesto richiederà un nuovo equilibrio. Potrete constatare dunque che anche la ripetizione non è mai uguale a sé stessa e che è una continua esplorazione di sé.
Quindi affinare i gesti, come nella cerimonia del tè, significa sviluppare una profonda sensibilità alla bellezza, all’armonia, all’equilibrio, che si riflette in ogni azione.
Rispettare la natura di ogni oggetto che utilizziamo e riponendolo al posto giusto (‘ci sono utensili che per loro natura hanno la loro collocazione in alto e utensili che devono stare in basso’ Dōgen Zenji- Tenzo Kyōkun).
Quando posate un bicchiere sul tavolo lo sguardo segue il gesto fino in fondo e la mano si prende cura della natura di quel bicchiere (più pesante o leggero, più solido o fragile) che non urterà pesantemente la superficie del tavolo. Voi, il bicchiere, il tavolo… siete diventati una cosa sola.
Nella nostra pratica che sia quella dello Zen come quella del Budō la perfezione è possibile, nella pratica del Budō si parla di Kami Waza, la tecnica divina, magistrale, perché in perfetta armonia con il momento in cui si compie, pertanto unica ed irripetibile.
Non si tratta dunque di una perfezione che si raggiunge una volta per tutte: è il momento perfetto, il gesto perfetto che tu vivi in maniera perfetta, perché sei totalmente implicato nell’azione al punto da scomparire in essa, da ritrovare quell’unità col tutto che la mente illusa aveva perso.
Allora scopriremo una ricchezza in ogni istante, in tutto quel che facciamo, al punto da fare della vita un’opera d’arte.
Quante volte nella vostra vita avete prestato attenzione, ascolto, all'acqua che scorre sulle mani quando le lavate. Pensateci! Forse mai avete veramente lavato le mani consapevolmente, entrando in relazione con l’acqua. Laviamo le mani e pensiamo ad altro, a quel che dobbiamo fare dopo ma provate una volta a lavarvi le mani solo per lavarvi le mani... potrete scoprire un mondo, un mondo di sensazioni, di pienezza, di gioia, questo è lo Zazen, questo il Satori! Aspettiamo sempre che la gioia arrivi in occasioni speciali invece è lì, a portata di mano.
E quando vi dico queste cose lo faccio per rammentarle anche a me stesso, non ho la pretesa di insegnar nulla che non stia insegnando anche a me stesso costantemente, perché il Satori va rinnovato di momento in momento, ‘Datsu Raku Shin Jin’ rispose Ju Ching al suo Discepolo Dōgen Zenji che gli comunicava il suo Risveglio, ‘continua ad abbandonare corpo e mente’ ‘ continua momento per momento a nutrire questa metamorfosi’

(registrazione e trascrizione a cura di Monica Tainin)
© Tora Kan Dōjō











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