lunedì 3 marzo 2025

Sorella Povertà


 

Pubblichiamo l'estratto di un Insegnamento offerto da Taigô Sensei durante la Pratica Zen.

Mi viene in mente l’esempio del nostro fratello e Maestro Francesco d’Assisi.

Era estremamente radicale nel modo in cui ha voluto vivere imitando Gesù, era radicale, non facile né da comprendere né da seguire, non faceva sconti a nessuno; andando oltre l’immagine addomesticata che ci è stata trasmessa.

Francesco con la sua lieve, delicata presenza, era di un’energia spaventosa che scuoteva le radici della vita di chi lo incontrava, come succedeva a chi incontrava Cristo, o il Buddha.

Una delle cose sulle quali Francesco era totalmente radicale, e non scendeva a nessun compromesso, era la povertà. Sorella Povertà, che riteneva la condizione essenziale, la prima condizione per i compagni della comunità che si era riunita intorno a lui. Anche questa idea di povertà è stata addomesticata perché è spesso confusa soltanto con la rinuncia a beni materiali.

Nel momento in cui nella piazza di Assisi Francesco ha restituito al padre i suoi abiti ed i pochi soldi che aveva con se, si è interpretato ‘addomesticando’ questo potente gesto con una rinuncia ai beni materiali.
In realtà quel momento segnava l’Ordinazione di Francesco, non c’è stato bisogno di un’istituzione che gli riconoscesse con un diploma la sua Ordinazione.
Francesco si è ordinato il giorno in cui ha restituito gli abiti al padre … ed ha scelto la sua vita.

È lo stesso gesto che fa il monaco Zen quando viene ordinato prosternandosi di fronte alla stele che rappresenta la sua famiglia. Restituisce i suoi abiti ed indossa il Kesa. Questo  significa riscoprire il legame familiare con un’altra profondità, un altro registro, una maturità che non sia quella della dipendenza.

La povertà di Francesco non era il rinunciare a qualcosa con sacrificio, ma era la gioia di aver compreso che non si aveva bisogno di nulla, la gioia di aver tranciato gli attaccamenti che non poteva che esprimersi con una vita semplice, sobria.

Dante rappresenta la lupa di Francesco come l’immagine del pericolo che lui ha domato. I pericolo dell’inseguire l’attaccamento, l’avidità; il lupo che è dentro di noi ingordo ed avido di tutto, anche di amore, quell’amore che viene soffocato dall’avidità.
La scelta consapevole di non voler più accumulare per sé stessi ma vivere con un abito ed una ciotola.

Su questo Francesco era radicale; un giorno trovandosi a Bologna dove si era costituita una piccola comunità di frati che seguivano la sua “regola” andò a fargli visita e si accorse che questi frati avevano costruito un edificio in cui vivevano, in cui avevano anche ospitato malati e bisognosi … si adirò furiosamente, cacciò fuori tutti, compresi i malati. Intimò ai suoi frati di andare per il mondo: “non dovete fermarvi, dovete servire muovendovi senza avere una casa fissa”.

Pensate quanto questo sia vicino all’esempio del Buddha … non dovete fermarvi, esortava il Buddha i suoi discepoli. Ogni giorno dovevano essere in un luogo diverso ad elemosinare il pane quotidiano senza conservare nulla per il giorno dopo.
Francesco sapeva che il fermarsi, l’attaccarsi, avrebbe corrotto la vita e la pratica dei suoi monaci.

Vedete quante coincidenze con l’attualità della pratica religiosa … 

La povertà di Francesco era una scelta, scelta di vivere sobriamente sapendo che nulla manca, senza alcun bisogno di accumulare … d’altronde lui giocava a Cristo, imitava Cristo e Cristo lo aveva detto chiaramente: non c’è bisogno che vi affanniate, ogni giorno ha il suo affanno, ma guardate gli uccelli nel cielo come sono splendidamente rivestiti senza dover cucire, non gli manca nulla, perché pensate che a voi possa mancare qualcosa ?

Anche un povero può essere avido e affamato di desiderio, o rabbioso perché magari ha perso i suoi beni giocandoli a carte, ma questa non è la povertà di Francesco.

La povertà di Francesco e del Buddha è scoprire la propria pienezza ed esserne appagati e soddisfatti. E’ poter dare a pieni mani perché si è talmente ricchi che non si manca di nulla e si può offrire tutto agli altri. Ogni giorno svegliandosi, Francesco decideva quella vita.

Sawaki Roshi diceva: “Se voi anche per un momento siete capaci di rinunciare ad una bella casa o ad un cibo delizioso avrete offerto un grande dono a tutta l’umanità”. Pensate quanto attuali siano queste parole, quanto vere …

Ci troviamo oggi nella condizione di essere vicini all’annientamento della razza umana a causa della nostra avidità. È tutto lì. Tutti i problemi che viviamo, da quelli politici a quelli di vita quotidiana, derivano quasi esclusivamente dalla nostra avidità.

Anche se non arrivando alla scelta radicale di Francesco, diventiamo consapevoli di questo rivoluzionando un po’ la nostra vita come lo Zen suggerisce di fare, perché se noi non abbiamo capito questo dello Zen non ha nessun senso sedere in Zazen.
Se lo Zazen non è alla radice delle nostre scelte, se non ci fa diventare più sobri, più attenti a quello che tocchiamo, all’acqua con cui ci laviamo al mattino, agli abiti che indossiamo, non ha nessun senso sedere in Zazen e non abbiamo capito nulla dello Zazen.

Paradossalmente si può anche vivere una vita agiata e non essere avidi come si può essere privi di ogni mezzo di sostentamento e rimanere avidi. Dogen Zenji aveva una famiglia ricca e ha scelto di vivere una vita sobria, Francesco altrettanto, il Buddha era figlio di un Re…

Quindi noi possiamo cominciare ad essere più sobri, più attenti alla piccole cose; non una goccia d’acqua va sprecata, non un chicco di riso. Il modo in cui lavoriamo, in cui offriamo il nostro servizio nel lavoro, può essere improntato a questa consapevolezza. Questo è il valore della pratica religiosa in generale.


© Tora Kan Dōjō


















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sabato 8 febbraio 2025

La vera religione non addomestica gli uomini

 


L'educazione e la pratica religiosa non possono essere concepite solo con il "dare dei begli esempi, edificanti" imporre dei precetti morali.

Si deve insegnare il coraggio della responsabilità e della propria coscienza.

Oggi, 425 anni fa, veniva bruciato Giordano Bruno, un uomo di grande sapienza e spirito religioso che venne ucciso da chi ritenne che non stesse dando un bell'esempio.

L’8 Febbraio del 1600 Giordano Bruno, al cospetto dei Cardinali inquisitori e dei Consultori, è costretto ad ascoltare inginocchiato la sentenza di condanna a morte per rogo; si alza e ai giudici indirizza la storica frase: “Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam” (“Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla”) poi la sua bocca fu chiusa per sempre e dato alle fiamme.

L'uomo, per essere uomo, quando la sua coscienza glielo impone ha necessità di fare cose che possono essere considerate scandalose e di 'cattivo esempio' dal potere e dalla massa, al punto da mettere in gioco la sua stessa vita.

I veri religiosi sono sempre stati degli anarchici rivoluzionari, niente a che vedere con dei pretini consolatori e mestieranti (cattolici o buddhisti non fa differenza).

La religione e l'educazione che si limita a dire alle persone : 'state buoni' è solo uno strumento del potere (vedi storia della Chiesa Cattolica e in ambito Buddhista la storia della Sôtô shu...).

Se la religione e l'educazione si riducono a questo hanno mancato il loro scopo, sono andate in tut'altra direzione.

Anche le grandi trasformazioni sono dovute ad un risveglio della nostra coscienza. Le trasformazioni sociali etc... Non sono semplicemente fatti oggettivi. C'è una continuità tra la nostra coscienza e la realtà.

"...perchè è proprio nelle zone segrete della coscienza, attraverso l'oscura dialettica degli ideali e delle passioni, che si elabora (addirittura) il destino del mondo e le forze nuove che fanno crollare gli Imperi sono quelle stesse che ogni uomo affronta nelle tenebre del suo cuore complice."  Daniel Rops

Paolo Taigō Spongia


© Tora Kan Dōjō


















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giovedì 6 febbraio 2025

La Vita come Pratica

 

Il monaco responsabile della sveglia a Fudenji


Pubblichiamo l'estratto di un Insegnamento offerto da Taigô Sensei durante la Pratica Zen.

Nel ritmo tradizionale di un Dōjō Zen, che sia un tempio o meno, la giornata inizia con lo Zazen della notte. Lo Zazen della sera, prima del sonno, e lo Zazen dell’alba vanno considerati come una pratica ininterrotta, quindi anche durante il sonno stiamo praticando, anche durante il sonno continua Zazen.

Chi ha l’incarico la mattina di dare la sveglia ‘shin rei’, che si può tradurre con: ‘sollevare lo spirito’, si alza una ventina di minuti abbondanti prima degli altri, accende la candela nel Dōjō, offre l’acqua sull’altare, offre l’incenso nei bagni che i monaci per la rapida abluzione del mattino, offre l’incenso sull’altare del Dōjō, si prosterna, fa sanpai, e poi percorre tutti i locali del tempio correndo e scampanando con una campanella fino a tornare nel Dōjō e prosternarsi di nuovo all’altare. A quel punto suona il primo colpo di moppan.

I monaci appena sentono lo scampanellio della sveglia si alzano immediatamente senza un secondo di esitazione, ripiegano le loro coperte e le ripongono, si vestono rapidamente e vanno nei bagni. La rapida abluzione del mattino è solo una pratica purificatoria, si purificano i sensi, occhi, orecchie, bocca con l’acqua recitando delle strofe che ci ricordano che ogni nostra azione deve essere a beneficio di tutte le esistenze.

Si lavano gli occhi, per avere degli occhi lucidi, chiari, trasparenti per guardare il mondo con occhi limpidi e puliti perché supportino la Retta Visione. Si lavano i denti perché si sviluppi in noi ‘il dente-occhio della saggezza che recide ogni illusione’. Si sciacqua la bocca per avere una bocca pura che possa esprimere l’amore del Buddha nelle nostre parole. Si sciacquano le orecchie per essere disposti ad un ascolto profondo e puro…
Poi ci si reca immediatamente nel Dōjō, e si siede in Zazen.
Dal momento dello scampanellio della sveglia al trovarci seduti in Zazen sono passati circa 8/9 minuti.

Può sembrare uno stile un po' militare, ma è molto efficace a scuoterci dalle nostre illusioni, dalle nostre resistenze, perché ci toglie la possibilità di rimanere intrappolati nel pensiero e di esitare. L’esitazione è una malattia mortale che ci fa bruciare la nostra vita e perdere preziose e irripetibili occasioni.

La nostra Pratica non inizia dunque quando mettiamo i glutei sullo zafu, è iniziata la sera prima, quando ci organizziamo la giornata, i nostri impegni, per recarci al Dōjō, quando prepariamo i nostri abiti e andando indietro fino ad ancora prima della nascita dei nostri genitori, quindi non è una questione di sveglie che squillino o meno. Dobbiamo capire bene questo punto altrimenti la pratica Zen diventa uno dei tanti ritagli del nostro tempo e non ha nessun senso né efficacia.

Noi non abbiamo l’occasione durante la pratica ordinaria settimanale di vivere questo tipo di esperienza profondamente coinvolgente e in qualche modo disorientante rispetto le nostre abitudini che spesso sono troppo ‘accondiscendenti’ con noi stessi, quindi dobbiamo essere ancora più maturi per certi versi. Quando facciamo l’esperienza della Sesshin (il ritiro intensivo che coinvolge le 24 ore con la pratica per diversi giorni) siamo in qualche modo facilitati perché si tratta di scegliere, non di obbedire.

La Pratica deve essere una scelta matura, dev’essere decisione non una coazione a ripetere, si deve ripetere-rinnovando.

Ogni mattina che abbiamo la fortuna di svegliarci dobbiamo decidere come vogliamo vivere la nostra vita e non è mai una decisione presa una volta per tutte; per questo ogni mattino indossiamo il Kesa e recitiamo le strofe come il giorno che l’abbiamo indossato la prima volta. Per ricordarci che si riparte sempre da 0, dal Vuoto.

Ogni giorno indossiamo la vita per la prima volta e capite che se diventiamo consapevoli di questo il nostro risveglio ha tutto un altro significato. Non ha niente a che vedere con il doversi alzare svogliatamente per subire un’altra giornata.
Deve essere un’espressione di una scelta di totale libertà.


© Tora Kan Dōjō


















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sabato 7 dicembre 2024

Il peccato originale

 

Prima del Concilio Vaticano II i bambini venivano battezzati immediatamente subito dopo il parto. Erano ancora epoche in cui la mortalità infantile era elevata, i bambini morivano spesso dopo il parto e si credeva che i bambini morti senza battesimo andavano all’inferno per sempre. Nel Medioevo un teologo innamorato (e l’amore fa sempre bene perché chi ama capisce meglio Dio) si chiese: è possibile che queste creature soltanto per il fatto di non essere state battezzate e sono morte finiscono all’inferno tra i tormenti per tutta l’eternità? Allora questo teologo, Abelardo, creò la categoria del limbo, cioè un luogo che non era il paradiso (non c’era la pienezza della gioia), ma non era neanche inferno (non c’era il tormento), era una zona grigia, una zona neutra. Questa teoria fu seguita fino al Concilio Vaticano II. Si credeva che ogni bambino che nasceva portava in sé la macchia di quello che veniva chiamato “peccato originale”, qualcosa di perverso che soltanto una mente perversa io credo possa concepire. Per la colpa di due persone che non ci si sono neanche parenti, ogni bambino che nasceva, portava questa colpa. Allora c’era bisogno di un rito che togliesse questa colpa. Quando celebro i battesimi, prendo sempre il pupo, lo mostro alla gente e dico: guardatelo, chi di voi ha il coraggio di dire che adesso con questo rito gli togliamo il peccato? Se qualcuno lo fa, chiamo il 113 o il 118 perché è matto! Uno che ha il coraggio di dire che questa creatura ha un peccato? No! Poi metto giù il pupo e mi rivolgo ai genitori e dico: adesso guardiamoci noi in faccia. Noi sì, dai nostri volti si vede che abbiamo fatto delle stupidaggini, abbiamo fatto degli errori, abbiamo commesso a volte delle ingiustizie che ci hanno segnato profondamente. Allora cosa succede? Questa creatura che è venuta al mondo ha il diritto alla pienezza di vita. Ma noi a causa dei nostri errori, a causa dell’ingiustizia, a causa del nostro egoismo gli trasmettiamo una vita già inquinata. Questo è inammissibile. Il rito del battesimo: il momento centrale (di per sé lo dico esagerato, ma spero che mi capite… nel battesimo il bambino potrebbe anche non esserci che tanto non gli succede niente) sono i genitori, il padrino e la madrina che rappresentano la comunità che devono fare una conversione: le famose rinunce al male etc.. e l’adesione al bene. Quindi nel battesimo non c’è da togliere una colpa alla creatura che, ripeto non ce l’ha, ma sono i genitori e la comunità che decide di togliere le proprie colpe, i propri atteggiamenti negativi che possono influire negativamente sul bambino. Allora, se vogliamo trovare il peccato originale in questo senso, dobbiamo andare nel vangelo di Giovanni dove si parla di peccato del mondo, non peccati del mondo, ma il peccato del mondo (Gv 1, 29b)


Alberto Maggi

© Tora Kan Dōjō

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venerdì 22 novembre 2024

Il Pensiero prima del Pensiero

 

Pubblichiamo l'estratto di un Insegnamento offerto da Taigō Sensei durante la Pratica Zen al Tora Kan Dojo.

Tornate al vostro respiro, alla postura, e attraverso questo tornare abbandonate quella mente che tenta di afferrare. “Aprite la mano del pensiero”, esortava Uchiyama Roshi.
Abbandoniamo quella modalità con cui di solito usiamo il pensiero, o meglio, quella modalità che ci porta ad essere usati dal pensiero. Non si tratta di non pensare, si tratta di pensare dal fondo profondo del non pensiero, ‘Hishiryo’.
La mente è come un oceano, se noi ci immergiamo nelle profondità della mente, come quando ci immergiamo nelle profondità dell’oceano, guardando in alto possiamo vedere come in superficie sia un continuo movimento di onde piccole e grandi, vortici, correnti … ma nella profondità tutto si acquieta.
Eppure è la stessa mente.
Quando siamo in superficie siamo coinvolti, a volte travolti dalle onde e dalle tempeste, dalle correnti che agitano la nostra mente, ma se noi attraverso il respiro, la postura, il nostro Zazen, riusciamo ad installarci nelle profondità di questo fondo di non pensiero, possiamo osservare serenamente tutte le tempeste che agitano il nostro pensiero.
Spesso accade che quando sediamo è come se la nostra mente si ribellasse al nostro tentativo di non volerci fermare alla superficie, al voler andare in profondità … allora lo stare solo semplicemente seduti, ‘Shikantaza’, appare noioso, poco attraente, ma questo pensiero sorge nel momento in cui è avvenuta una disconnessione, non siamo più connessi con la nostra postura, con lo Zazen; solo allora possiamo trovarlo poco interessante, noioso. Finché siamo unificati pienamente nell’azione del sedere non ci sarà spazio né tempo per annoiarsi e questo accade in ogni momento della nostra esistenza quotidiana.
Se noi troviamo noioso il lavare una scodella è perché in quel momento siamo disconnessi da quello che stiamo facendo e vivendo, dal lavare la scodella, da quello che percepiamo.
La nostra mente è già fuggita altrove, nel passato o nel futuro e allora subentra la noia, subentrano tanti aspetti che non ci permettono di vivere pienamente quell’esperienza. Eppure quel gesto è sempre nuovo, le sensazioni sono sempre diverse. Lavare una scodella può essere ogni giorno una nuova avventura, un’esplorazione nel percepire i nostri gesti in relazione a quell’oggetto, le sensazioni che ci ritornano.
I gesti che compiamo quotidianamente possono essere sempre più raffinati ed efficaci.
La nostra vita quotidiana diviene il nostro ‘laboratorio spirituale’.
Che differenza c’è tra il far girare una scodella tra le mani nel lavarla ed il compiere un passo di danza? Perché dobbiamo pensare che un gesto sia più nobile di un altro, o che compiere un passo di danza ci rimandi ad una consapevolezza ed una presa di coscienza più profondi o diversi dal tenere in mano una scodella e delicatamente prenderci cura di questa nel lavarla? Non è assolutamente così; diffiderei di un ballerino che non danza mentre lava una ciotola. Avrei seri dubbi sulla sua comprensione di cosa sia davvero la danza.
Quando c’è implicazione, trasporto, presenza, c’è anche bellezza. Senza ombra di dubbio. Quando ricerchiamo la bellezza dobbiamo necessariamente muoverci nella direzione dell’equilibrio, dell’armonia, dell’efficacia.
Ecco perché il ricercare la bellezza e l’armonia nel Dōjō, e quindi nella vita quotidiana, è indissolubilmente legato alla qualità del nostro pensiero e della nostra consapevolezza, della nostra capacità di unificare il corpo e la mente nell’azione. Implica sia un aspetto interiore che un aspetto esteriore che in qualche modo devono fondersi nella nostra azione. Anche quando sediamo in Zazen, c’è un aspetto interiore in cui i contorni si sfumano fino a confondersi … esteriorità ed interiorità si condizionano vicendevolmente.
Ecco perché il mio maestro diceva “l’abito fa il monaco”. Quell’abito, che è innanzi tutto un abito mentale, ti costringe a rivedere tutto il tuo modo di pensare, muoverti, interagire con lo spazio e le cose, ti costringe ad un’altra qualità di presenza. Quindi non è un accessorio che possiamo indossare e dismettere a piacimento.
Sediamo in Zazen prendendoci cura di quella che apparentemente può sembrare un’immagine esteriore: la postura ben diritta, ma il nostro tendere verso quell’immagine ideale, quello sforzo interiore che non si vede dall’esterno, è quello che fa il nostro Zazen.
Ecco perché Dōgen Zenji dopo aver descritto scrupolosamente la postura di Zazen, facendo un lungo elenco che comprende anche le caratteristiche del luogo dove ci sediamo, addirittura la temperatura della stanza, alla fine dice: ma attenti perchè lo Zazen non è solo sedere. Dobbiamo essere in grado di essere in Zazen anche mentre laviamo una scodella.. È molto importante comprendere questo perché lo Zazen non diventi una tecnica che sarebbe una completa deviazione da quello che è lo Zazen del Buddha.
Questo ‘Installarsi’nel pensiero Hishiryo, accedere alla dimensione più profonda della mente permette di osservare in profondità.
Pensate ad esempio quando vi alzate al mattino e magari resistete all’idea di sedervi in Zazen e quando poi invece vi sedete su quel cuscino riuscite a realizzare quanto la vostra mente sia agitata, stia rincorrendo passato e futuro … ma il fatto che voi seduti in Zazen  vedete questo chiaramente è già la realizzazione, è già trasformativo. Quei pensieri che si rincorrono non sono più gli stessi pensieri, la loro qualità si è già trasformata. Quando si dice che Zazen è Hishiryo non significa che il pensiero scompare, ma che cambia il modo in cui noi siamo consapevoli del nostro pensiero, lo osserviamo e non ne siamo più condizionati.
Allora, vi capiterà anche quando state in fila all’ufficio postale, che in un momento torniate alla vostra postura e al respiro, e vedrete la vostra mente riflessa come in uno specchio … e probabilmente un sorriso apparirà sul vostro viso, perché avrete capito che voi non siete quella mente e non può più ingannarvi, intrappolarvi nelle sue illusioni.
Potrete accogliere allora il pensiero, qualunque pensiero, come si accoglie un soffio di vento che attraversa la nostra stanza che magari in quel momento fa volare i nostri fogli, ma noi sappiamo che basterà chinarci a raccoglierli.

Trascrizione a cura di Monica Tainin

















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sabato 16 novembre 2024

La via del Guerriero: Hagakure

Pubblichiamo un brano di Costantino Ceoldo pubblicato dalla Biblioteca dell'Estremo Oriente 

"Ho scoperto che la Via del Guerriero consiste nella morte. Quando arriva il momento di scegliere tra vita morte, è meglio scegliere subito la morte. Non è poi così difficile: basta solo decidere e andare avanti. Chi sostiene che morire senza aver raggiunto il proprio scopo sia morire invano, pratica una via da mercanti".

Questo è il terribile inizio dell’Hagakure di Yamamoto Tsunetomo.



Un libro che in forma di precetti, sentenze, massime ma anche brevissime storie, ha rappresentato per generazioni una sorta di breviario spirituale per tutti i giapponesi che abbracciavano la Via del Guerriero. O che intendevano farlo.

Un libro maledetto, secondo le forze di occupazione americane in Giappone. Un libro tanto odiato e temuto che gli statunitensi si impegnarono con zelo nel tentativo di rimuoverne il ricordo. Ne bruciarono nel fuoco migliaia di copie. Gli americani imputavano all’Hagakure l’acceso nazionalismo che i giapponesi avevano manifestato fino alla sconfitta bruciante della Seconda Guerra Mondiale. All’Hagakure e ai suoi insegnamenti fu fatto risalire il fenomeno dei kamikaze e dei suicidi di massa al posto della resa, anche tra i civili.

I vincitori cercarono così di bruciare ogni copia esistente ma fallirono nel loro scopo ed il libro è sopravvissuto divenendo noto in tutto il mondo, studiato, ancora adesso apprezzato o odiato da chi lo conosce.

Hagakure non è stato scritto dallo stesso Tsunetomo ma dal suo unico allievo Tashiro il quale contraddisse la volontà del maestro e non distrusse la trascrizione delle conversazioni che i due ebbero tra il 1710 e il 1716. Ne scaturì un libro che fu subito considerato un tesoro prezioso dai samurai del clan a cui Tsunetomo apparteneva e secoli dopo divenne uno dei capisaldi della letteratura samuraica.

Negli anni in cui Hagakure fu scritto la classe dei samurai manifestava già i tratti decadenti del tempo di pace perché l’unificazione del Giappone era già stata completata da più di un secolo.

La pace portava con sé, infatti, stabilità e prosperità e quindi il bisogno di funzionari amministrativi competenti più che di legioni di guerrieri sempre pronti alla battaglia. La chiusura delle frontiere, decretata da un governo che temeva (non completamente a torto) le ingerenze politiche e religiose di Spagna e Portogallo, impediva anche l’avvio di campagne militari all’estero così che molti samurai si ritrovarono a vivere la situazione contraddittoria di guerrieri che erano combattenti solo in via potenziale. Molti di loro persero il loro impiego, diventando ronin, dei samurai senza padrone costretti ad una vita raminga e molto dura. Altri ricorsero alla morte per suicidio, unico mezzo per sfuggire al disonore della miseria.

Tsunetomo insegna guardando al futuro perché teme la decadenza che vede serpeggiare nel presente e ricorda con rimpianto i fasti di un periodo scomparso, da lui però mai vissuto. Un periodo in cui gli uomini potevano confrontarsi gli uni con gli altri sul campo di battaglia ed ognuno guardava in faccia la propria verità senza poter mentire.

Lui stesso era un samurai dei tempi moderni: non aveva mai partecipato ad alcuna guerra o battaglia o duello e, al di fuori del suo addestramento, non aveva mai conosciuto le asperità della vera vita militare del tempo di guerra.

Era sempre stato però un fedele vassallo del suo Signore, incarnando gli ideali di fedeltà e dedizione che affondavano le loro radici profonde nella cultura confuciana e buddhista che il Giappone aveva mutuato dalla Cina. Ma Tsunetomo era talmente fuori tempo storico da non poter neanche praticare junshu alla morte del suo feudatario. Non poté, cioè, realizzare il suicidio per fedeltà che si era prefisso fin da giovane e che era sempre stato concesso a quei samurai che avevano fatto voto di non sopravvivere alla morte del loro daimyō: pochi anni prima era stata infatti approvata una legge che proibiva simili atti a causa degli eccessi del passato. Come alternativa gli fu permesso di pronunciare i voti religiosi e diventare monaco buddhista fino alla fine dei suoi giorni terreni. Lui stesso lo riconosce nel libro, affermando di preferire di reincarnarsi sette volte come samurai del suo clan piuttosto che conseguire il nirvana degli illuminati.

Di che parla Hagakure?

Parla di fedeltà. Di dedizione. Di coraggio. Di etica. Di come vivere la propria vita servendo il proprio Signore in modo decoroso. Ma non solo.

Parla di un concetto tipico della cultura giapponese dell’epoca e, in misura molto diversa, contemporanea: quello di giri, il debito morale che si ha con chi è venuto prima di noi e prima di noi ha saputo compiere grandi cose. Giri è un’idea presente anche in altre culture ma non sempre in maniera così marcata come nel Giappone dei samurai. Inutile ricordare come nel mondo contemporaneo occidentale, dominato dal consumismo e dalla brama di denaro, tale concetto suoni superato ed anacronistico alle orecchie di molte persone. Buffo, alle orecchie degli stolti.

Hagakure parla della morte e di come affrontarla quotidianamente, per esempio esortando a guardare quotidianamente a se stessi come se si fosse già morti: l’accettazione di questo fatto, secondo Tsunetomo, porta la capacità di vivere con equilibrio e in modo etico. Questo è un punto interessante perché vi sono ordini religiosi cristiani i cui monaci hanno l’abitudine di salutarsi ricordandosi esplicitamente l’ineluttabilità della morte. Il richiamo alla caducità dell’esistenza umana dovrebbe portare la persona ad agire rettamente e con equilibrio nella sua vita quotidiana.

Hagakure è anche una continua esortazione alla moderazione: dei sensi, dei sentimenti, delle aspettative, delle parole, degli atti, dei gesti. Perché se è facile cadere in una situazione critica a causa di una parola pronunciata con leggerezza o di un gesto fatto anche senza cattive intenzioni, può essere però difficilissimo uscirne. E l’unico modo di togliersi da una situazione critica può essere il seppuku, il suicidio rituale di cui junshu era una delle varianti.

Tsunetomo era intriso di sentimento buddhista e questo traspare nelle esortazioni al rispetto per tutte le creature viventi. Può sembrare un comportamento contraddittorio ma quella dei samurai è una figura complessa e il venir meno di uno stato di guerra continua fra clan feudali aveva favorito l’affermarsi di caratteristiche diverse nella stessa figura di guerriero.

Hagakure è un’opera scritta in un’epoca oramai passata ed alcuni riferimenti culturali sono difficili da comprendere per l’uomo contemporaneo ma nella sua essenza permane un’opera che offre molti spunti di riflessione. Può essere un ottimo strumento per la vita quotidiana sapendo scegliere e adattandolo allo spirito dei nostri tempi.

Vi sono infatti parti di Hagakure che non è possibile trasporre direttamente nella società deforme e deformata nella quale viviamo oggi ma altre invece vi possono essere adattate. Coraggio, lealtà, rispetto, impegno, attenzione continua e precisa per l’attimo che stiamo vivendo: sono tutte caratteristiche che l’uomo contemporaneo può coltivare come le coltivava il samurai dell’antico Giappone.

Si tratta in realtà di qualità senza tempo perché appartengono alla natura umana, sono il fondamento dello stato di diritto e perfino di una società democratica.

La figura del samurai, il guerriero disposto al sacrificio supremo per lealtà al proprio Signore, ha visto una grande e variegata produzione cinematografica.

Tralasciando i film della produzione nipponica, sconfinata nella sua vastità, è interessante segnalare il bel film di Jim Jarmusch Ghost Dog nel quale un eclettico Forest Whitaker interpreta la parte di un samurai contemporaneo, di colore, curiosamente al soldo di un boss mafioso italoamericano.

Quello di Whitaker è un personaggio con tratti negativi e per alcuni versi condannato-votato al finale ineluttabile, ma non per questo privo di una sua morale e di una propria etica. Proprio dalla lettura dell’Hagakure, brani del quale si sentono recitati nel film, si intuisce lo sforzo di autocostruzione della propria personalità che Whitaker-Ghost Dog porta avanti. Quasi che la realizzazione dell’epica samuraica nella sua vita quotidiana fosse per lui l’unica via di fuga dall’ambiente oppressivo e senza futuro del ghetto in cui è nato e cresciuto e in cui vive.

Come nella migliore tradizione samuraica, l’errore involontario nell’adempimento di un incarico, determina una catena di eventi che portano inevitabilmente alla morte del personaggio del film. Il samurai di colore si ribella seguendo, in questo, un altro topòs dell’epica samuraica: la ribellione del guerriero esplode, a causa del modo ingiusto con cui viene trattato proprio da colui a cui si è consacrato, in tutta la sua furia possente quanto inutile. La morte inevitabile suggella la fine della ribellione del samurai Whitaker-Ghost Dog: è la nobiltà della sconfitta, come l’ha chiamata Ivan Morris e tema caro ancora oggi ai giapponesi.

Come ci insegna il vecchio Tsunetomo, alla fine si possono anche prendere decisioni in contrasto con quelle del proprio Signore ma bisogna sempre essere pronti a rispondere per le loro conseguenze.

Voglio ricordare per concludere, l’ultimo junshu di cui si ha notizia: alla morte dell’Imperatore Hitohito, nel 1989, un cittadino giapponese compì seppuku lasciando una breve spiegazione. Quell’uomo scrisse “ero un soldato, molti anni fa avevo giurato di dare la mia vita per l’Imperatore”.



"I have found that the Way of the Samurai consists in death. When it comes time to choose between life and death, it is best to immediately choose death. It is not difficult, you just need to decide and move on. Those who argue that die without having achieved their purpose is to die in vain, practice a Way of merchants".

This is the terrible beginning of Yamamoto Tsunetomo's Hagakure.

A book that in the form of findings, maxims and precepts, accounted for generations a sort of spiritual breviary for all Japanese who had embraced the way of the warrior. Or for whom intended to embrace it.

A cursed book, according to the American occupation forces in Japan. A book so hated that the Americans were engaged with zeal in an attempt to remove his memory, by burning thousands of copies. The Americans imputed to Hagakure the intense nationalism that the Japanese had shown up to the stinging defeat of the Second World War. The phenomenon of kamikaze and mass suicide instead of surrender, even among civilians, was also brought up to the Hagakure and its teachings.

Thus, the winners tried to burn every existing copy but failed to do so and now the book is well-known all over the world, studied, yet loved or hated by the readers.

Hagakure was not written by Tsunetomo himself but by his only student Tashiro which contradicted the will of his master and did not burn the first transcript of their conversation, which took place from 1710 to 1716. The result was a book that was once considered a precious treasure by the samurai of the clan to which Tsunetomo belonged and centuries later became one of the cornerstones of samurai literature.

During the years when Hagakure was written, the unification of Japan had already been done for more than a century and the samurai class already manifested the decadent traits of the peacetime.

Peace brought with it, in fact, stability and prosperity and therefore the need for competent administrative officials rather than legions of warriors always ready for battle. The closure of borders imposed by a government who feared the political and religious interference of Spain and Portugal, also prevented the launch of military campaigns abroad so that many samurai found themselves more and more to live the contradictory situation of warriors who were fighters only in potential. Many of them even found themselves out of work, becoming ronin, masterless samurai forced into a wanderer and very hard life, or to the death by suicide, the only way to escape the disgrace of poverty.

Tsunetomo teaches looking to the future because he fears the decadence that he sees meander in the present and remembers with regret the splendor of a period gone he never lived. A time when men were confronted with each other on the battlefield and faced their truth, without being able to lie.

He himself was a samurai of modern times: he had never participated in any war or battle or duel and, outside of his training, he had never experienced the harshness of real military life during wartime.

He had always been, however, a faithful vassal of his Lord, embodying the ideals of loyalty and dedication that had their roots deep in Confucian and Buddhist culture that Japan had borrowed from China. But Tsunetomo was so out of historical time that he could not even practice Junshu at the death of his feudal Lord. He could not, that is, carry out the suicide for loyalty he had promised many years before and that always had been granted to those samurai who had vowed not survive the death of their daimyo: few years before, in fact, it was passed a law prohibiting such acts. As an alternative, he was allowed to pronounce his vows and become Buddhist monk until the end of his days on earth.

What about talk Hagakure?

Talks about loyalty. Dedication. Courage. Ethics. But not only.

It talks about a typical concept of Japanese culture of that time and, to varying degrees, contemporary: the "giri", the moral debt that you have with those who came before us and before us has been able to accomplish great things. Giri is an idea also present in other cultures but not always in a manner so marked as in the Japan of samurai. Needless to say as in the contemporary western world, dominated by consumerism and the lust for money, this concept sounds outdated and anachronistic to the ears of many people.

Hagakure speaks of death and how to deal with it daily, for example calling to look daily at yourself as if you were already dead: the acceptance of this fact, according to Tsunetomo, brings the ability to live a balanced and ethical life. This is an interesting point because there are Christian religious orders whose monks have a habit of greeting explicitly remembering the inevitability of death. The reminder of the transience of human existence should lead the person to act righteously and with balance in everyday life.

Hagakure is also a continuous exhortation to moderation of the senses, feelings, expectations, words, acts and gestures. Because if it is easy to fall into a critical situation due to a word spoken lightly or a gesture made even without bad intentions, however, may be difficult to get out. And the only way to get out from a critical situation can only be by seppuku, the ritual suicide of which Junshu was one of the variants.

Tsunetomo was steeped in Buddhist sentiment and this shines through in the exhortations to respect for all living creatures. It may seem a contradictory behavior but that of the samurai was a complex figure and the absence of a state of war continues between feudal clan had favored the emergence of different features in the same figure of a warrior.

Hagakure is a work written in an era now passed, and some cultural references are difficult to understand for the contemporary men but in its essence it remains a work that offers much food for thought. Knowing choosing and adapting to the spirit of the times, it can be a great tool for everyday life.

There are, i.e., parts of Hagakure that cannot be transposed directly into the crooked and deformed society in which we live today but, instead, other parts can be adapted. Courage, loyalty, respect, commitment, attention continuous and precise: these are all features that modern men can cultivate like the samurai of ancient Japan.

In fact, these qualities are timeless because they belong to human nature and are the foundation of the rule of law and, even, of a democratic society.

The figure of the samurai as a warrior willing to make the supreme sacrifice for loyalty to his Lord, saw a large and diverse film production.

Apart from the Japanese film production, boundless in its vastness, it is interesting to note the beautiful Jim Jarmusch's Ghost Dog in which an eclectic Forest Whitaker plays the part of a samurai contemporary, colored, in the pay of an Italian-American mafia boss.

A character with negative traits, and in some ways doomed to failure, that of Whitaker, but not without its own moral and ethical. Just from the reading of Hagakure, excerpts of which appear recited in the film, you can understand the effort of self-construction of his own personality that Whitaker-Ghost Dog carries forward. Almost that the realization of the samurai epic in his daily life was, for him, the only escape from an environment oppressive and without future, like that of the slum where he lives.

As in the best tradition, a mistake (in this case unintentionally) in the line of duty, determines a chain of events that lead inevitably to the death of the character of the film. A sacrificial death that seals the rebellion of the samurai Whitaker-Ghost Dog: as we learn from the old Tsunetomo, at the end you can also take decisions running counter to those of your Lord but you must always be prepared to answer for the consequences.

We want to remember, finally, the last known junshu: after the death of the Emperor Hitohito, in 1989, a Japanese citizen performed seppuku, leaving a brief explanation. That man wrote, "I was a soldier, many years ago I swore to give my life for the Emperor".


© Tora Kan Dōjō
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venerdì 27 settembre 2024

Il segreto dello Zen

"Nel mondo in cui viviamo, tale insegnamento è difficile da seguire: solo coloro che hanno ereditato un buon Karma ne sono gli eredi, ne possono misurare la portata e l'importanza. Forse penserete che questa Regola sia troppo rigida, tuttavia in essa risiede l'aspetto più profondo e più alto del Buddhismo Mahayana. E' il vero Zen, così come lo ha trasmesso il Buddha. E' il segreto dello Zen, poiché è solamente nella pratica vissuta, quotidiana, che si realizza veramente il Dharma, il vero Spirito dei Maestri. Se vi accontentate di una trasmissione intellettuale, superficiale, il vostro studio sarà ben poco efficace. Ma se comprenderete attraverso la pratica regolare e fedele delle mille azioni della vita di ogni giorno, comprenderete esattamente attraverso tutto il corpo e tutto lo spirito, e potrete progredire."


Dal commento del Maestro Taisen Deshimaru al Tai Taiko Gogejari Hō

(capitolo dell’ Eihei Shingi) di Dōgen Zenji


© Tora Kan Dōjō











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